martedì 6 marzo 2012

VALLE DI SUSA - La guerra dei due mondi

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Quello in atto in Valle di Susa è un autentico «scontro di civiltà»: la manifestazione di due modi contrapposti e paradigmatici di concepire e di vivere i rapporti sociali, le relazioni con il territorio, l'attività economica, la cultura, il diritto, la politica. Per questo esso suscita tanta violenza da parte dello stato - inaudita, per un contesto che ufficialmente non è in guerra - e tanta determinazione - inattesa, per chi non ne comprende la dinamica - da parte di un'intera comunità.
Quale che sia l'esito, a breve e sul lungo periodo, di questo confronto impari, è bene che tutte le persone di buona volontà si rendano conto della posta in gioco: può essere di grande aiuto per gli abitanti della Valle di Susa; ma soprattutto di grande aiuto per le battaglie di tutti noi.
Da una parte c'è una comunità, che non è certo il retaggio di un passato remoto, che si è andata consolidando nel corso di 23 anni di contrapposizione a un progetto distruttivo e insensato, dopo aver subito e sperimentato per i precedenti 10 anni gli effetti devastanti di un'altra Grande Opera: l'A32 Torino-Bardonecchia.
Gli ingredienti di questo nuovo modo di fare comunità sono molti. Innanzitutto la trasparenza, cioè l'informazione: puntuale, tempestiva, diffusa e soprattutto non menzognera, sulle caratteristiche del progetto. Un'informazione che non ha mai nascosto né distorto le tesi contrarie, ma anzi le ha divulgate (a differenza dei sostenitori del Tav), supportata da robuste analisi tecniche ed economiche: gli esperti firmatari di un appello al governo Monti perché receda dalle decisioni sul Tav Torino-Lione sono più di 360; significativo il fatto che un Governo di cosiddetti «tecnici» il parere dei tecnici veri non lo voglia neppure ascoltare. ...
Secondo, il confronto: il movimento non ha mai esitato a misurarsi con le tesi avverse: nei dibattiti pubblici - quando è stato possibile - nelle istituzioni; nelle campagne elettorali; nelle amministrazioni; nel finto «Osservatorio» messo in piedi dal precedente governo e diretto dall'architetto Virano, che non ha mai avuto il mandato di mettere in discussione l'opera ma solo quella di imporne comunque la realizzazione. Strana concezione della mediazione! La stessa del ministro Cancellieri: «Discutiamo; ma il progetto va comunque avanti». E di che si discute, allora? ...
Il terzo elemento è il conflitto: non avrebbe mai raggiunto una simile dimensione e determinazione se l'informazione non avesse avuto tanta profondità e diffusione. Ma sono le dure prove a cui è stata sottoposta la popolazione ad aver cementato tra tutti i membri della cittadinanza attiva della valle rapporti di fiducia reciproca così stretti e solidi.
Il quarto elemento è l'organizzazione, strumento fondamentale della partecipazione popolare: i presìdi, numerosi, sempre attivi e frequentati, nonostante le molteplici distruzioni di origine sia poliziesca che malavitosa; le frequenti manifestazioni; i blocchi stradali; le centinaia di dibattiti (non solo sul Tav; anzi, sempre di più su problemi di attualità politica e culturale nazionale e globale) che vedono sale affollate in paesi e cittadine di poche centinaia o poche migliaia di abitanti; la presentazione e il successo di molte liste civiche; la rete fittissima di contatti personali nella valle; il sostegno che il movimento ha saputo raccogliere e promuovere su tutto il territorio nazionale: Fiom, centri sociali, rete dei Comuni per i beni comuni, movimento degli studenti, associazioni civiche e ambientaliste, mondo della cultura, forze politiche (ma solo quelle extraparlamentari); ecc. ...
E dall'altra parte? Schierati contro il movimento NoTav ci sono la cultura, l'economia, la metafisica e la violenza delle Grandi Opere: la forma di organizzazione più matura raggiunta (finora) del capitalismo finanziario: la «fabbrica» che non c'è più, divisa in strati e dispersa in miriadi di frantumi. Le caratteristiche di questo modello sociale, che ritroviamo tutte nel progetto Torino-Lione, sono state esemplarmente enucleate da Ivan Cicconi ne Il Libro nero dell'alta velocità (Koiné; 2011) e qui mi limito a richiamarle per sommi capi. La «Grande Opera» è innanzitutto un intervento completamente slegato dal territorio su cui insiste, indifferente alle sue sorti prima, durante e soprattutto dopo la fine dei lavori, quando, compiuti o incompiuti che siano, li abbandona lasciando dietro di sé il disastro. Non è importante che sia utile o redditizia. Col Tav Milano-Torino dovevano correre, su una linea dedicata ed esclusiva, 120 coppie di treni al giorno; ne passano 9: quasi sempre vuoti. L'importante è che la «Grande Opera» si faccia e che alla fine lo stato paghi. E' una grande consumatrice di risorse a perdere: suolo, materiali, energia, denaro (ma non di lavoro, comunque temporaneo e per lo più precario, che a lavori conclusi viene abbandonato a se stesso insieme al territorio). Per questo ha bisogno di grandi società di gestione e di grandi finanziamenti, cioè del coinvolgimento diretto di banche e alta finanza (il ministro Corrado Passera ne sa qualcosa; non per assumersi l'onere della spesa, ma solo per fare da schermo temporaneo a un finanziamento che alla fine ricadrà sul bilancio pubblico.
E' il modello del project financing , l'apogeo dell'economia finanziaria che ci ha portato alla crisi, inaugurato trent'anni fa dall'Eurotunnel sotto la Manica. Quanto al Tav, le tratte Torino-Milano-Roma-Salerno dovevano essere finanziate almeno per metà dai privati; il loro costo, lievitato nel corso del tempo da 6 a 51 miliardi di euro (ma molti costi sono ancora sommersi e, una volta completate le tratte in progetto, supereranno i 100 miliardi) è stato interamente messo a carico dello Stato (cioè del debito pubblico). Ma per il Tav in Valle di Susa non si parla più di project financing: la fretta è tale che si dà inizio ai lavori senza sapere dove prendere i soldi. Si aspettano quelli dell'UE, che forse non verranno mai, spacciando questa attesa per un impegno «imposto dall'Europa».
Ma perché quei costi sono quattro volte quelli di tratte equivalenti in Francia o in Spagna? E' il «Grande Segreto» delle nostre «Grandi Opere»: il subappalto. Le Ferrovie dello stato hanno affidato - in house , cioè senza gara - la realizzazione dell'intero progetto a Tav Spa, sua filiazione diretta. TavSpa, sempre senza gara, ha affidato il progetto a tre General contractor (le tre maggiori società italiane all'epoca: 1991), tra cui Fiat. Fiat ha fatto il progetto della Torino-Milano e ne ha affidato la realizzazione a un consorzio della sua - allora - controllata Impregilo (quella dei rifiuti in Campania e del disastro ambientale in Mugello). Impregilo ha diviso i lavori in lotti e li ha affidati, senza gara, a una serie di consorzi di cui lei stessa è capofila; e questi hanno affidato a loro volta le forniture e le attività operative a una miriade di ditte minori, attraverso cui hanno fatto il loro ingresso nella «Grande Opera» sia il lavoro nero che la 'ndrangheta: la stessa, ben insediata a Bardonecchia, che da tempo aspetta l'inizio dei lavori sulla Torino-Lione e ha già ampiamente contrattato (vedi l'inchiesta giudiziaria Minotauro) il voto di scambio con i principali partiti della Regione. I lavori che all'ultima ditta della catena vengono pagati 10 Fiat li fattura a TavSpA a 100. La differenza è l'intermediazione dei diversi anelli della catena, tra cui non mancano partiti e amministrazioni locali.
Ecco che cos'è la «crescita» affidata alle «Grandi Opere». Ed ecco perché per imporre una soluzione del genere occorre occupare militarmente il territorio. E perché ci vuole un Governo «tecnico». Così Monti è il benvenuto.

GUIDO VIALE

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